“Radio Bruxelles”
La nuova rubrica dell’Istituto Mediterraneo Studi Internazionali per raccontare l’Europa
Ma la Costituzione giustifica la cessione di sovranità all’Unione Europea?
Ma la Costituzione giustifica la cessione di sovranità all’Unione Europea?
Uno degli aspetti che certamente più ha interessato il dibattito tra gli studiosi non solo di Diritto Internazionale ma anche di Diritto Costituzionale, è senza dubbio alcuno il fondamento costituzionale dell’adesione del nostro Paese all’Unione Europea. Gli studiosi sono unanimi (eccezion fatta, come vedremo, la tesi minoritaria del Quadri) nel ritenere che l’adesione italiana alle Comunità europee trovi giustificazione e fondamento nell’articolo 11 della Costituzione, in quella parte in cui esso afferma che l’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie a garantire un ordinamento pacifico fra la Nazioni, promuovendo e favorendo le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Dalla lettura dei lavori preparatori dell’ Assemblea Costituente, appare evidente che il costituente, nello scrivere l’articolo 11, avesse in mente, in quel momento, la partecipazione dell’Italia alle Nazioni Unite, sebbene non siano mancati emendamenti, respinti, (ad esempio quello di Emilio Lussu) volti ad affermare un riferimento ad ipotetiche organizzazioni europee. Certamente, occorre contestualizzare il periodo storico in cui venne scritta la nuova Costituzione
repubblicana: siamo alla fine della seconda guerra mondiale, con gli orrori e le follie dei totalitarismi nazista e fascista, per cui forte era la spinta pacifista verso la costruzione di un nuovo ordine mondiale basato sui concetti di pace appunto e di giustizia, nonché dalla necessità di costituire una nuova Organizzazione delle Nazioni Unite, con più poteri rispetto alla precedente e fallimentare Società delle Nazioni. In questo contesto, i nostri padri costituenti ritennero di elevare il pacifismo a supremo principio costituzionale; dall’altro lato ipotizzarono la possibilità che il nostro Paese, in condizioni di reciprocità con altri Stati, potesse anche accettare di limitare la propria sovranità, non solo in riferimento alle norme internazionali (cosa resa superflua peraltro dal principio pacta servanda sunt) ma soprattutto per partecipare ad organismi internazionali finalizzati al raggiungimento di un ordine internazionale pacifico. Da questo punto di vista, se la partecipazione del nostro Paese all’ONU non ha implicato significative e straordinarie limitazioni di sovranità, il discorso cambia, e di molto, per quanto riguarda la partecipazione all’U.E. Sappiamo che l’Unione Europea ( e prima ancora la CEE) è un organismo internazionale particolare rispetto agli altri, sui generis, caratterizzato dalla produzione di norme spesso direttamente applicabili in ogni Stato membro ( regolamenti e direttive ad efficacia immediata) e dotato di un vero e proprio organismo legislativo ad elezione diretta. A differenza di altre organizzazioni internazionali, tra cui anche l’ONU, le norme comunitarie (oggi diciamo dell’Unione) non sono soft law, ma sono norme giuridiche vincolanti e obbligatorie per tutti gli Stati membri, con un grado di superiorità gerarchica rispetto alle norme interne. Ed è il primato delle norme comunitarie ad essere stato ancorato proprio all’articolo 11 della Costituzione, con una interpretazione estensiva di quella locuzione relativa ” alla limitazione di sovranità”. Già nella nota sentenza Costa/ Enel (1964) la Corte Costituzionale italiana ritenne che l’articolo 11 era il punto di riferimento con cui giustificare tale adesione, affermando che “la norma significa che, quando ricorrono certi presupposti, è possibile stipulare trattati con cui si assumano limitazioni della sovranità ed è consentito darvi esecuzione con legge ordinaria ”. La stessa pronuncia aggiunge che, tuttavia, “ciò non importa alcuna deviazione dalle regole vigenti in ordine alla efficacia nel diritto interno degli obblighi assunti dallo Stato nei rapporti con gli altri Stati, non avendo l’art. 11 conferito alla legge ordinaria, che rende esecutivo il Trattato, un’efficacia superiore a quella propria di tale fonte del diritto ”. L’articolo 11 era quindi visto come una norma permissiva, che non attribuisce un particolare valore, nei confronti delle altre leggi, a quella esecutiva del Trattato. Logica conseguenza era che, secondo la Corte, lo Stato, dopo aver accettato la limitazione della propria sovranità, avrebbe potuto recuperare la propria libertà di azione mediante una legge ordinaria successiva, senza che quest’ultima incorresse nel vizio di incostituzionalità, ferma restando l’eventuale responsabilità dello Stato sul piano internazionale. Successivamente, evolvendo il proprio pensiero, la Corte Costituzionale, nella sentenza Frontini (1973) chiamata a pronunciarsi sul fondamento costituzionale del fenomeno comunitario in relazione all’articolo 11, giunge alla conclusione che “non è possibile avere alcun dubbio sulla piena rispondenza del Trattato di Roma alle finalità indicate da tale disposizione; se è vero che essa fu pensata per l’ONU, tuttavia, essendo caratterizzata da generalità e astrattezza, ben può essere utilizzata anche per regolare fattispecie differenti che rientrano nel suo campo di applicazione, come avviene nel caso dell’Unione Europea, che secondo la Consulta certamente costituisce organizzazione internazionale che persegue pace e giustizia tra le Nazioni, l’adesione alla quale, quindi, può determinare per l’Italia limitazioni di sovranità “. Il primato del diritto comunitario sul diritto interno, tuttavia, ha avuto una elaborazione giurisprudenziale interna molto lenta e spesso conflittuale con la giurisprudenza della CGE, che invece ha da sempre affermato tale primato. E’ con la sentenza Granital del 1984, che la Corte Costituzionale ha finalmente affermato il principio secondo cui, a norma dell’articolo 11 Cost., l’ordinamento interno e l’ordinamento comunitario sono due ordinamenti autonomi, che si coordinano ed integrano tra loro e affermando il primato del diritto comunitario sul diritto interno, risolvendo eventuali antinomie tra essi non già attraverso il giudizio di costituzionalità bensì attraverso lo strumento della “disapplicazione” della norma interna in favore della norma comunitaria, munita di effcacia diretta. Questa impostazione ha poi trovato conforto nella riformulazione, nel 2001, dell’ articolo 1170 Cost., dove per la prima volta, in maniera esplicita, viene fatto riferimento in Costituzione al diritto comunitario e si afferma il principio della supremazia dello stesso sull’ordinamento interno. Diversa è invece, come detto, la posizione del Quadri il quale, ritenne di individuare il fondamento costituzionale dell’ adesione italiana all’Unione Europea nell’articolo 10 della Costituzione: quest’ultimo articolo, sostiene il Quadri, recependo in maniere automatica le norme consuetudinarie generalmente riconosciute, rinvia al principio pacta servanda sunt, per cui i trattati, tra cui ovviamente quelli istitutivi dell’ Unione Europea, sarebbero vincolanti per il
nostro Paese automaticamente, senza necessità di alcuno specifico ordine di esecuzione. La tesi del Quadri, per quanto originale, ciò nondimeno, non ha riscontro alcuno nel dato normativo costituzionale, cozzando con la previsione di cui agli articoli 80 e 87 della Costituzione, che prevedono invece una procedura ad hoc per la ratifica dei trattati internazionali. Tuttavia, a ben vedere, la ratifica importa la sola responsabilità dello Stato sul piano internazionale, e non anche l’ obbligatorietà del trattato sul piano interno: non vi è in Costituzione, infatti, alcun riferimento alla procedura di adeguamento del diritto interno al diritto internazionale pattizio, diversamente da ciò che accade con l’esplicito riferimento dell’articolo 10 al diritto internazionale consuetudinario. Ciò posto, occorre chiedersi allora se l’articolo 11 possa giustificare la “cessione” di sovranità,sebbene limitata a determinate materie, dello Stato verso l’ U.E. L’articolo in questione parla di ” limitazione” della sovranità, il che fa pensare non tanto alla cessione di intere competenze, come avvenuto nel caso dell’ Unione Europea, ma ad un esercizio delle competenze nell’ambito e nel rispetto di un ordine sovrastatale superiore. Di recente, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 227 del 24 Giugno 2010, ha nuovamente ribadito che solo l’articolo 11 Cost. , ancor più dell’art. 117 Cost. post riforma 2001, garantisce quelle limitazioni di sovranità che l’ordinamento comunitario comporta, sottolineando ancora una volta che lo Stato, attraverso l’articolo 11 Cost., ha operato una delega di competenze all’Unione Europea, con la conseguenza che gli atti normativi di quest’ultima, qualora siano ad efficacia diretta, sono sottratte al controllo di costituzionalità della Corte Costituzionale, dovendo il giudice disapplicare la norma interna in contrasto con la norma comunitaria. A ben vedere, dunque, la giurisprudenza costituzionale interna ha fin qui elaborato un principio di ancoraggio del fondamento giuridico dell’Unione Europea imperniato nell’art. 11 Cost., il quale correttamente così interpretato, certamente non consente una cessione illimitata di sovranità, ma esclusivamente una delega di sovranità in favore di organismi internazionali aventi ad oggetto il mantenimento della pace e della giustizia. E ciò vale anche per l’Unione Europea, con la conseguenza, ad avviso di chi scrive, che, a Costituzione invariata, lo spoglio totale di competenze del nostro Paese in favore dell’Unione è al limite della costituzionalità, imponendo al legislatore un intervento di modifica costituzionale dell’articolo 11, rendendolo coerente col nuovo assetto comunitario, soprattutto dopo l’entrata
in vigore del Trattato di Lisbona.
Dott. Rosario Fiore
Segretario Generale I.ME.S.I
in collaborazione con
Marco Caradonna
Coordinatore Uffcio Segreteria Generale I.ME.S.I